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La coltivazione del castagno da frutto in Garfagnana, risale presumibilmente al mille, quando anche qui, come in molte altre zone d’Italia, si ebbe una decisa svolta nell’economia con la messa a frutto delle aree cosiddette incolte per far fronte ad un sempre crescente incremento demografico. Non che mancassero i castagneti nella lucchesia altomedievale, ma la loro presenza era considerata secondaria ed il consumo di castagne marginale rispetto ad altri alimenti più diffusi.
Nel processo di cerealizzazione dell’economia anche il bosco venne piegato alle nuove esigenze e si ebbe così l’affermarsi del castagno, l’albero del pane. In lucchesia contribuì certamente alla diffusione del castagneto da frutto Paolo Guinigi, il quale avrebbe favorito l’innesto delle cultivar più idonee alla produzione di farina buona e sorbevole ritenendo che questa avrebbe sfamato la famiglia per gran parte dell’anno. Questo concetto verrà successivamente rafforzato dal Tanara nell’anno1664, il quale nel suo < L’Economia del cittadino in villa> scrive: < I castagni sono di due sorti, selvatico il naturale , domestico l’artificioso. Dal frutto si ricava una farina dalla quale si fa pane e di tanto nutrimento secondo Galeno, che levatone quello di frumento nutrisce più di ogni altro grano, e ce ne accerta vedere uomini robustissimi, e donne giovani che nella carne somigliano al latte, e nelle guance alla rosa, vivendo solo di questa farina e d’acqua
Vista così accresciuta la sua importanza alimentare e di conseguenza quella commerciale, il castagno non poteva non avere la protezione dei governi che si succedevano nel tempo. Negli statuti di molti comuni della zona, a partire dall’anno 1360 come nel caso di Barga, si leggono disposizioni severe sulla raccolta e l’esportazione dei suoi frutti, per la farina si parla addirittura di un dazio. Multe venivano comminate a chiunque danneggiasse o, peggio ancora, tagliasse legname di castagno <verde o secco, silvestre o domestico>. Vale la pena citare su tutte, una legge generale che reca una somma di norme per il castagno: “ Modus eligendi offitium super silvis et autoritas eligendi exploratores”.Dal dieci dicembre 1489, che costituì il fondamento della legislazione lucchese sui castagneti. Tra i molti aspetti di questa legge è interessante rilevare che innestando castagni si acquisiva la proprietà del suolo avendo diritto per otto anni ad usufruire del raccolto. La coltura del castagno in lucchesia andò sempre più diffondendosi tanto che in Garfagnana ben presto il suo frutto divenne fonte principale di sostentamento per la popolazione.
Già Virgilio nella I° ecloga delle bucoliche così si esprimeva: < Abbiamo dei buoni frutti, delle belle castagne e cacio in quantità>, ciò a significare che un tempo l’alimentazione era basata essenzialmente su quanto si riusciva a produrre sul posto. E quanto avrebbe ancora inciso il castagno a tale proposito ce lo conferma Carlo Roncaglia nel 1847, il quale nella statistica generale degli Stati Estensi, riferendosi riferendosi alla provincia della Garfagnana, scrive: <…. Ove i prodotti dei cereali non bastino al bisogno della popolazione, vi suppliscono i castagneti, che vi sono spessissimi e ben distribuiti….> La stima era che vi fossero più di due milioni di castagni diffusi solo nella Garfagnana estense. Svariate erano le qualità coltivate anche in relazione all’altitudine dei siti. Tra le più diffuse, le carpinesi coltivate specialmente nelle zone del Sillico, Trassilico, Verni, ottime per la farina e per essere arrostite, le pontecosi di caratteristiche simili alle precedenti, le mazzangaie, di grandi dimensioni, buone per fare farina, o “ballucciori" cioè lessate, le pelosore, le rossole, le verdole, le nerone e le capannacce tutte buone per l’essicazione ai fini di ottenere farina.
L’essicazione delle castagne, in Garfagnana, da sempre è avvenuta nei metati cioè in strutture atte a contenere il mucchio (dal latino Metà (M) ) delle castagne messe ad asciugare sotto il fuoco. A noi oggi i metati sono pervenuti come costruzioni in muratura, generalmente sparsi nei castagneti, di ampiezza variabile, a metà altezza divisi da un solaio a stecche di legno poste una vicino all’altra, il “canniccio", sopra il quale vengono stese le castagne. Sotto si fa un fuoco leggero, senza fiamma, con ciocchi di castagno e il fumo salendo attraversa le castagne asciugandole a poco a poco. Dopo circa 40 giorni nel metato i frutti sono secchi e possono essere sgusciati. Non è mai stato fatto un censimento dei metati presenti in Garfagnana, comunque da stime riferite alle produzioni si può calcolare che metati attivi in provincia di Lucca, sino agli anni ’50, superassero i settemila.
Le castagne essiccate venivano trasformate in farina nei mulini di cui era molto ricca l’intera valle. Basti pensare che nell’800, nel circondario della Garfagnana, erano in funzione 245 mulini e questo dato, ancora una volta, testimonia l’entità della produzione di sfarinati da destinare all’uso alimentare. La farina di castagne, che nella zona chiamano di “neccio”, veniva cucinata in vari modi: Per lo più consumata come polenta oppure cotta nel latte come “manafregoli” o in forno con olio e guarnita con noci e pinoli come “castagnaccio”. Ma il vero protagonista delle mense garfagnine era il “neccio”, una schiacciatella ottenuta dalla cottura fra due testi di ferro di un impasto fatto semplicemente con farina di castagne, acqua e un pizzico di sale.
Riguardo all’etimologia del vocabolo neccio che in zona è, come già ricordato, sinonimo di farina di castagne, alcuni autori fanno risalire questa parola a epoche remote allorquando molte popolazioni si cibavano ancora di ghiande che essiccavano, macinavano e trasformavano in pane. Le ghiande in questione è plausibile che fossero principalmente quelle del leccio, vista anche la sua diffusione. Quando la farina ilicea venne abbandonata negli usi alimentari per essere sostituita da quella di castagne, più dolce e gradevole, è possibile che nel linguaggio corrente si sia mantenuto lo stesso aggettivo iliceus (di leccio) anche per indicare la nuova farina.
E’ chiaro a questo punto, come nel corso dei secoli le vicissitudini delle popolazioni della Garfagnana ma anche delle zone vicine, siano state profondamente legate al castagno tanto che questa pianta, come tanti autori hanno affermato, ha fatto nascere attorno a sé una civiltà: la civiltà del castagno.
Dalla fine degli anni ’50, anche in queste zone, il castagno ha subito un forte regresso durante il quale si è assistito allo spopolamento della montagna, al cambiamento delle abitudini alimentari con forte deprezzamento della farina di castagne e non ultimo all’insorgere di gravi fitopatie che hanno ridotto sensibilmente il patrimonio castanicolo. Ma dai primi anni novanta si è vista una ripresa e ogni anno sempre maggiore e puntata soprattutto alla produzione di farina di castagne, che nella nostra provincia è denominata "Farina di neccio" tanto che in Garfagnana si è costituita nel marzo '98 "l'Associazione Castanicoltori della Garfagnana" con lo scopo di mantenere e preservare le antiche tradizioni , della nostra cultura contadina legate all'albero del castagno e dei suoi prodotti.
Attualmente l'Associazione ha ottenuto la D.O.P. (Denominazione di Origine Protetta) dal Ministero delle politiche Agrico-Forestale ed attualmente la pratica è presso il Parlamento Europeo per l'ultima fase al riconoscimento DOP massimo riconoscimento che la C. E. esprime per un prodotto tipico.
A tutto questo si è aggiunta la consapevolezza che i castagneti, oltre che una potenziale fonte di reddito, rappresentano anche un patrimonio collettivo in termini ambientali, storici e turistico-ricreativi per l’area interessata.
IVO POLI
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