Solitudine ed escursioni

IL PRETINO DI PUCCINI – SOLITUDINE ED ESCURSIONI

Nei primi tempi del mio nuovo soggiorno a Fornovolasco, ricevetti da Puccini in data 6 Gennaio 1902 la seguente cartolina.

< Caro Pretino,Ricevo oggi la tua lettera; lodo l’affetto che hai per la tua mamma, e ciò ti onora. Ma se ero in te restavo a Pietrasanta. Non hai saputo fare i conti col tuo carattere. Oramai cosa fatta capo ha. Prendila con filosofia e vivi tranquillo. Tutto passa in questo mondo e a tutto si fa l’abitudine. Saluti da Elvira. Tuo aff.mo.    

G.Puccini>

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Mi accorsi ben presto che il mio temperamento non era fatto per la solitudine ed in ciò aveva  completamente ragione Puccini. Ciò che invece mi fece soffrire molto nei primi tempi fu l’assoluta mancanza di un ambiente intellettuale, dato il mio carattere propenso alla compagnia di persone intelligenti.

Frequentavo spesso – come fanno quasi tutti i preti dei piccoli villaggi di montagna – l’unica stamberga del paese che poteva essere insieme caffè, albergo, bottega di conversazione, cattedra di verità, ambiente di affari, o fabbrica di ponci.Intorno ad una cappa enorme dove ardeva d’inverno un enorme ciocco di castagno, spesse volte mi sedevo anch’io con un mezzo toscano in bocca, a prendere parte autorevole in quelle conversazioni, il cui tema poteva essere indifferentemente il  programma delle Funzioni della Chiesa, come i maiali, i canipali, le vacche, lo strame, i castagni, il suppidiano, il  formaggio, la ricotta, le pecore, le capre e soprattutto il …..Brasile dove si recavano in cerca di fortuna quasi  tutti gli uomini del Paese.Ogni bambino che nasceva, almeno allora, a Fornovolasco, aveva scritto sulla fronte, per una tradizione antica, la parola <Brasile>.

I cinque o sei figlioli di alcune famiglie rappresentavano rispettivamente cinque o sei viaggi in America da parte del marito che ogni due o tre anni ritornava in patria ad esercitare brevemente le sue funzioni maritali e paterne ed  a fare la conoscenza dell’ultimo nato. Abitudine moralmente un po’ pericolosa, ma che nessuno, cominciando dal prete, ha potuto mai togliere dalla testa di quegli ingenui e rudi montanari. Semplicità patriarcale, e sta bene, ma che ha prodotto qualche volta quegli effetti deleterii di facile considerazione.

I conforti che io trovai a poco alla volta in quel piccolo paese – dopo le mie doverose funzioni parrocchiali – furono tre: la mia mamma, le escursioni sui monti, e il pianoforte. Santa donna, la mia mamma, e molto intelligente, che comprendeva in silenzio il mio sacrificio e che sentiva la musica in un modo fantastico.

Le mie escursioni  sulle cime dei monti erano emozionanti e mi facevano doventar poeta, in una meravigliosa concezione di quel sublime e di quell’infinito che portano direttamente e istintivamente a Dio. Quante volte sono andato sulla vetta della Pania e sull’arco del Monteforato che dal lato di Sud-Est appartenevano alla mia parrocchia! Quante volte mi sono sdraiato lassù addormentandomi sotto la sferza del solleone e risvegliandomi per il fruscio delle ali dei falchi che mi passavano a due palmi dalla faccia! Quante volte d’inverno ho azzardato la salita su due metri di neve farinosa, con grave pericolo della tormente pur sapendo che qualcuno vi rimase soffocato!Due volte nei mesi di colma estate mi alzai all’una e mezzo di notte per fare in tempo a vedere dalla vetta della Pania la levata del sole. Spettacolo fantastico, grandioso, imponente che bisognerebbe vedessero quelli che non credono in Dio! Ma per questi è molto difficile un tale esperimento per la semplicissima ragione che dormono… moralmente e materialmente.Mi innamorai anche dei falchi. Un giorno vennero in canonica due dei miei chierichetti con un grosso nido che conteneva due… pulcini, candidi come la neve.

- <Dove  avete preso questi  due pulcini? Riportateli subito alla  chioccia.>

-<Ma  non sono mica due  pulcini signor Rettore, sono due falchi.>

- <Due falchi? Dove mai li avete  scovati?>

E qui mi raccontarono cose da rabbrividire. In  un’altissima rupe a picco, dove le capre avrebbero avuto paura, uno  di loro andò a scovare questo  nido per aver l’onore di farne omaggio al  prete. Mi  piacquero  e li allevati con la stessa passione con la quale si  possono allevare due capinere  o  due canarini. Questi  due falchi furono per quasi un anno il  mio divertimento e quando ebbero le ali ben sode detti loro la  via. Planarono  maestosamente per una settimana in quei dintorni ritornando qualche volta al  cibo consueto, ma poi non li vidi più.

Un altro mio  conforto,  dove passavo delle ore intere, era il pianoforte. Non ebbi mai  la  pazienza di  studiarlo metodicamente perché era troppo tardi, ma come già disse Puccini, sapevo pescare con gusto. Imparai a memoria – stando scrupolosamente alle note – quasi tutta la  Boheme e la Tosca, e più tardi anche la Butterfly che suonavo continuamente con grande delizia della mia mamma.

Finii così per fare l’abitudine ai monti, specialmente dopo aver conosciuto alcuni miei colleghi, tra i quali il bravo Don Antonio Fiorani, parroco di Vergemoli, appassionato sportivo dalle gambe d’acciaio, insuperabile tiratore di forma, e ciò che non guasta poeta di  buon gusto.

Tratto da "Il Pretino di Puccini" di Don Pietro Panichelli - Edizioni Plus, Pisa, 2008 - Prima edizione Nistri Lischi Editori, Pisa, 1938.